Chissà se quella telefonata ricevuta nella lontana estate del 1999 aveva lasciato presagire al compianto Sebastiano Tusa la grande scoperta che avrebbe segnato parte della sua vita professionale. Un amico subacqueo, durante una battuta di pesca, aveva intravisto tra la posidonia, a pochi metri di profondità, alcune porzioni di legno che lo avevano spinto ad avvertire “il Professore”. E dopo le prime perplessità, un’immersione nello specchio d’acqua di Marausa, a pochi chilometri da Trapani, diede certezza alle supposizioni: una antica nave in legno era rimasta sotto sabbia e posedonia per chissà quanti anni e solo ulteriori indagini subacquee avrebbero chiarito i dubbi.
Dopo qualche anno, grazie a una delle tante intuizioni di Tusa, i fondi messi a disposizione dallo Stato grazie ai proventi del gioco del lotto, consentirono le prime campagne di indagini e scavo subacqueo. La neonata Soprintendenza del Mare, da lui inventata e diretta per quindici anni, iniziò ad indagare il prezioso relitto partendo dai primi reperti che si presentarono agli occhi degli archeologi: anfore, contenitori, lucerne, porzioni di legno. E successivi scavi sistematici portarono alla luce, dopo qualche anno, lo scafo di una nave oneraria romana del III-IV secolo d.C. proveniente dal Nordafrica e che probabilmente, incagliandosi sul basso fondale o urtando contro una scogliera, naufragò assieme al suo carico destinato ad una villa romana rurale posta nei pressi della foce del fiume Birgi.
Dopo più di duemila anni, conservata sott’acqua e sottratta ai suoi più temuti nemici – il mare e l’uomo – la nave si ripresentava a chi ebbe il compito di restituirla alla pubblica fruizione. Una complessa operazione che in alcune settimane consentì di recuperare, smontandola pezzo per pezzo, un’imbarcazione di notevoli dimensioni. Circa diciotto metri di lunghezza e sei di larghezza: un lavoro certosino di scavo, di rilievo e di smontaggio che come un puzzle al contrario, ha impegnato i subacquei in una impresa che poche volte era stata affrontata.
Più di settecento parti in legno, compresa la chiglia della nave – un pezzo unico lungo più di dieci metri – furono recuperate assieme a decine di reperti, monete, lucerne, chiodi in metallo, anfore, ossa di olive, pinoli, nocciole, mandorle, noci, pesche, pigne, fichi secchi e frutta secca varia. Un carico misto che presentava anche anfore per il trasporto di vino, olio e garum, una salsa di pesce molto in voga al tempo dei romani.
Concluso il lungo e minuzioso lavoro di recupero, iniziava il processo di restauro dei legni che, inviati a Salerno presso un laboratorio specializzato, iniziavano il complesso processo di desalinizzazione, essiccamento e consolidamento per essere rimontati successivamente. Era già il 2016 e la nave tornava in Sicilia pronta per offrirsi al pubblico, e il Museo Baglio Anselmi di Marsala sembrò la sede ideale per la sua esposizione.
Oggi, finalmente, la nave ricostruita e musealizzata con supporti didattici e multimediali, completa il lungo percorso che ha visto l’impegno, il sacrificio e la dedizione di molti uomini; ma soprattutto l’intuizione, la perseveranza e la tenacia di uno studioso che purtroppo non ha visto la sua opera completamente realizzata. Una beffa del destino non gli ha consentito di presentare al mondo una consistente parte della sua eredità morale, umana e scientifica che ci lascia. A Marsala, sul lungomare Boeo intriso di acqua e di sale, da oggi si respirerà anche molto di lui.
Salvatore Emma
(sicilia.admaioramedia.it)