Il 7 aprile di 98 anni fa veniva ucciso per mano mafiosa a Misilmeri il giovane 25enne Mariano De Caro. Ma a differenza di altre vittime della mafia di quegli anni nel palermitano (come Nino Alongi, Giovanni Orcel, Vito Stassi) il suo nome è caduto per decenni nell’oblio.
De Caro nasce a Misilmeri nel 1896 da Pietro, un maniscalco di origine palermitana e da Filippa Ferruggia, misilmerese. Si diploma ragioniere e prosegue negli studi universitari, che interrompe allo scoppio della prima guerra mondiale perché inviato come recluta nell’85° Reggimento Fanteria di Trapani dove diviene tiratore scelto. Il 26 febbraio 1918, in virtù delle doti dimostrate e dei titoli di studio posseduti, entra a fare parte dell’XI corso per allievi ufficiali alla Scuola militare di Modena. E quindi viene inviato a Foen (Feltre, Belluno) con il grado di sottotenente. L’ultima foto che lo ritrae in divisa da ufficiale del Regio esercito risale al 14 luglio 1919.
Ritornato alla vita civile, riprende gli studi. Frattanto la situazione sociale d’Italia è disastrosa, la vittoria mutilata, i combattenti reduci sono derisi e spesso picchiati, occupazioni di fabbriche e scioperi ad oltranza paralizzano lo Stato, il disordine è imperante. È il “biennio rosso”. Mariano è appassionato collezionista di cartoline, monete, distintivi e medaglie; intrattiene corrispondenza con amici ed ex commilitoni del fronte che condividono con lui una certa cultura sociale e nazionale da tutt’Italia. L’ideale appreso in trincea si manifesta nel reduce, che diventa così il primo fascista “antemarcia” di Misilmeri. Infatti aderisce ai Fasci di combattimento prima ancora della “marcia su Roma” quando essere fascisti comportava solo svantaggi, rischi e pericoli.
Nel 1920, a Misilmeri, un piccolo nucleo di uomini ardimentosi composto da ex combattenti, (fra cui Pietro Scozzari), giovani entusiasti credenti nel fascismo-movimento in nome di una vocazione social-rivoluzionaria, volta a smantellare i gangli di un anacronistico sicilianismo – che aveva in spregio la modernizzazione e il cambiamento – formano il “Circolo degli Studenti”. Si trattava di un organismo concepito per sconvolgere gli equilibri socio-economici esistenti, fondati su un’economia agraria latifondista gestita con metodi parassitari dai ceti aristocratici e dai gabellotti legati alla mafia e arricchitisi alle spalle dei contadini. Mariano assume la presidenza del circolo e spande a Misilmeri la nuova ventata ideale dell’italiano nuovo. Ma, come già per molti, vale l’antico adagio: nemo profeta in patria.
Anche De Caro è giunto al suo appuntamento con il destino. Il suo entusiasmo, il suo coraggio, il suo sprezzo del pericolo, l’essere stato combattente per l’Italianità, l’avere superato indenne la tempesta di fuoco, la sua gioventù, la sua cultura, in una parola il suo stile, non vengono apprezzati dai potentati locali. I rais del posto non gradiscono la veemente battaglia ingaggiata da un giovane che ha osato sfidare la mafia a viso aperto. Era la sera del 7 aprile 1921, quando Mariano salutò la madre per l’ultima volta. Uscì da casa, percorse pochi metri, «e immediatamente dopo lugubri rimbombi espansisi nel silenzio serale» (testimonianza di contemporanea), cadde al suolo, raggiunto dai proiettili esplosi da fucili di traditori, vili caini italioti. De Caro viene proditoriamente assassinato alle ore 20,00, in piazza Fontana Nuova, (oggi Cosmo Guastella, già “U chianu di furchi” perché, durante l’oscurantismo, vi si eseguivano le condanne a morte). (cfr. Giornale d Sicilia del 1921). Sembrò che dal cielo si udisse la voce: «Caino dov’è tuo fratello? Il suo sangue grida dalla terra!»
Poco dopo il sacrificio, nel suo nome, un gruppo di giovani studenti mantenne viva nel Paese la fiamma della ribellione, seppure l’ambiente apparisse ancora diffidente e chiuso alla penetrazione del nascente ideale. La madre Filippa muore straziata dal dolore, dopo circa un anno dall’assassinio del figlio.
Di Mariano De Caro resta oggi, nel punto esatto del suo martirio, la lapide che riporta: «per Mariano De Caro, fascista, qui caduto il 7 aprile 1921, in avanguardia sulle insidiate vie di un sogno di redenzione cui egli diede con siciliana passione la sua balda giovinezza quando il farlo parea follia ed era eroismo. Misilmeri nell’alba radiosa della raggiunta realtà pone, con fede littoria ad onore ad esempio a monito. Luglio 1928 A. VI. MORI». La cerimonia di posa ebbe luogo, col concorso della popolazione di Misilmeri e dei paesi vicini, tra il più alto entusiasmo. Ci fu un’aperta presa di posizione contro la mafia e contro la malvivenza (cfr. G.d.S. del 28). E dopo lo scoprimento della lapide, il “prefetto di ferro” Cesare Mori sentì dire da un giovane al suo vicino: «Che significa ‘monito’?». «Significa – rispose l’altro con uno sguardo chiaro e risoluto – “ca cu tocca ‘cca ci sata a testa“» (“che a chi la tocca, gli salta la testa). Evidentemente la lapide era assai guardata. (cfr. C. Mori, Con la mafia ai ferri corti).
Il supremo sacrificio di uomini come Mariano De Caro a Misilmeri, dei fratelli Domenico e Bartolomeo Perricone a Vita (TP), Gigino Gattuso a Caltanissetta, Giacomo Schirò a Piana degli Albanesi e di altri caduti fascisti nel resto della Sicilia, non fu vano (cfr. Pietro Nicolosi, Gli antemarcia di Sicilia). Infatti dopo questi misfatti, per un lungo periodo, grazie alla tenace lotta condotta da Cesare Mori, nel 1928, la mafia nell’Isola semplicemente era stroncata e l’Italia progrediva nel futuro.
Uomini della levatura di De Caro, avrebbero contribuito sicuramente a realizzare il “bene comune” per il nostro Paese, come già intrapreso anche dal Capitano dei Bersaglieri, legionario fiumano con Gabriele D’Annunzio, avv. Pietro Scozzari, con la realizzazione del lago dello Scanzano, e nella formazione etica dei nuovi cittadini. Oggi ci si chiede cosa avrebbero potuto fare per Misilmeri e per il Paese personalità simili, capaci del martirio per l’idea.
Dopo ottantuno anni, in un barbaglio di gratitudine e di amor Patrio, il comune di Misilmeri ha ricordato questo suo figlio nel 2002 rendendogli gli onori civili e militari, nel tripudio del paese imbandierato mentre dal cielo scendevano bandierine tricolori lanciate dai paracadutisti e la banda dei bersaglieri faceva vibrare l’animo intonando l’inno nazionale. Recentemente gli è stata anche intitolata una via a Misilmeri. Forse Mariano da lassù ha sorriso al “camerata” che ha raccolto il grido del sangue dalla terra e ostinatamente l’ha riportato all’attenzione pubblica con amore e profondo rispetto.
Paolo Francesco Lo Dico
(sicilia.admaioramedia.it)